La felicità è uno stato del mio essere.

La felicità è uno stato del mio essere.

[…]“Mida vien dietro a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol essere lieto, sia:
di doman non c’è certezza[1].”[…]

“Mida viene dietro a costoro:
ciò che egli tocca, diventa oro.
E a che giova avere tesori,
se poi non si è contenti?
Che dolcezza vuoi che senta
chi è incontentabile?
Chi vuol esser lieto, lo sia:
non c’è certezza del domani”.

Da quando l’uomo ha coscienza di sé rincorre, si interroga e ambisce alla felicità.
Effimera sensazione o uno stato dell’essere?
Aristotele nell’Etica la definisce così: “La felicità è il significato e lo scopo della vita, l’intero scopo e il fine ultimo dell’esistenza umana.”
Il pensiero del filosofo greco ci pone una visione particolare della felicità, egli la pone in stretta relazione con la sapienza.

“Come mai il sapiente è il più felice dei mortali? Perché è autosufficiente, sereno, appagato e non cerca di raggiungere particolari obiettivi mondani, avendo tutto quello che gli serve dentro di sé”.

Sia per Aristotele sia per Lorenzo De Medici la felicità è uno stato interiore, un addestramento della mente e del cuore.

E’ un illusione relegare la felicità a qualcosa di esteriore che possiamo desiderare ma che, nel momento stesso del suo sopraggiungere, comprendiamo che lì non dimora il nostro essere lieti.
Quante volte nella vita abbiamo sperimentato quell’euforia iniziale, che si accende e si spegne nella breve vita di un fiammifero quando raggiungiamo qualcosa da tempo ambito.
Un obiettivo conquistato, una vincita, una rivalsa su qualcuno… tutto ciò che possiamo desiderare non è il cammino verso la felicità.

E’ questa felicità effimera che attraverso immagini poetiche, ci descrive Montale.
“Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s’incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t’ama[2].[…]

Felicità che sei stata ottenuta, si cammina
per arrivare a te, come se si fosse sulla lama tagliente di un rasoio.
Per gli occhi sei come la luce di una candela che trema, per il piede, come il ghiaccio duro che si spezza. E perciò è
bene che non ti sfiori nemmeno chi ci tiene di più a te.

Possiamo dire che i sogni sono il motore per la nostra evoluzione e miglioramento, per metterci in gioco, per determinare un senso al nostro svegliarsi al mattino.

La felicità è il binario parallelo che abbiamo bisogno di coltivare, di disciplinare dentro noi, indipendentemente dagli eventi.

Qualcuno, non ricordo dove, suggeriva di “scegliere di essere felici”.
Non una felicità fasulla, una maschera da indossare per proteggerci, ma uno stato interiore da cui attingere in ogni situazione.
Assomiglia molto al ricordo si Sé. Quando mi ricordo che esisto, che vivo (non sopravvivo), quando “mi sveglio” e contatto la profonda sostanza che è, al di là dei vari ruoli che recito sul palcoscenico della mia quotidianità, allora sono felice.

La felicità non è un’emozione. Quando la confondiamo con le emozioni perdiamo la sua vera essenza.
Essa va addestrata. Richiede disciplina e impegno.

Trovo interessante l’esperimento “del marshmallow” di Walter Mischel.
Il test del marshmallow detto anche test della gratificazione differita, valuta la capacità di resistere a una tentazione per ricevere un premio più grande in un secondo momento.
Il test si sviluppa così: un bambino tra i tre e i sei anni riceve un dolce (caramella, marshmallow, biscotto) e può decidere di mangiarlo oppure di attendere che lo sperimentatore rientri nella stanza per riceverne un altro, se non ha mangiato il primo.
Monitorati poi nel tempo i bambini che erano riusciti a mantenere un maggior autocontrollo e avevano una maggiore sensibilità alla gratificazione differita (quelli che avevano atteso l’arrivo dello sperimentatore), diventati adulti avevano raggiunto posizioni di successo in diversi settori della vita, un alto rendimento scolastico, una vita amorosa soddisfacente e un miglior stato di salute.

L’omeostasi è quello stato che tende all’equilibrio. Se basiamo la felicità sugli eventi esterni (mangio il dolcetto subito) questi produrranno in noi un iniziale effetto di euforia. Dopo un periodo iniziale che potremmo chiamare di riadattamento tutto torna al normale stato precedente di soddisfazione. Se prima del “evento/premio” eravamo soddisfatti della nostra vita allora lo saremo anche successivamente, se prima dell’evento eravamo insoddisfatti, anche dopo torneremo ad esserlo.

La felicità è in gran parte determinata dalla nostra visione delle cose e, soprattutto, da quanto si è soddisfatti di quello che si ha.

Disciplina e addestramento.
Non abbiamo scampo… ciò per cui vale la pena combattere richiede il nostro sacro impegno.

Alessandro D’Avenia dice “Se ti annoi non stai vivendo abbastanza. La vita l’apprezzi abbastanza fino a quando non sbatti di fronte al dolore, fino a quando non comprendi che ne hai solo una da vivere. Perché lasciarsela sfuggire, vivere con il rimpianto di come poteva essere, andare sempre e solo alla ricerca? Fermiamoci ogni tanto, godendo di ciò che si ha”.

Ci piacerebbe avere una strada più comoda da percorrere.
La brutta notizia è che non c’è. La buona notizia è che c’è una strada possibile da percorrere.

Quando abbiamo ammaestrato noi stessi “all’arte di essere felici” ci accorgeremo che questo stato modifica la realtà esterna ed è contagioso.

Provare per credere.

Con Amore
Dhara-Roberta


[1] Lorenzo De Medici Trionfo di Bacco e Arianna.

[2] Montale, Ossi di Seppia “Felicità Raggiunta, si cammina.